LE SFIDE DI MARTA CARTABIA – LA GIUSTIZIA CIVILE
- storiescomode
- 22 feb 2021
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La settimana scorsa ci siamo occupati dei problemi che attanagliano la nostra giustizia penale ed in particolare della prescrizione. Se però Sparta piange Atene non se la passa meglio ed allora diamo uno sguardo alla nostra giustizia civile che ancora una volta è tornata nell’occhio del ciclone della cara Europa che ha subordinato il trasferimento dei soldini del Recovery Fund ad una riforma questa volta seria e coraggiosa del processo civile capace di garantire tempi certi e rapidi nella speranza di rafforzare la fiducia degli investitori esteri nel nostro Paese.
L’inefficienza del nostro sistema giudiziario produce difatti inevitabili riflessi negativi sulla crescita economica perché incide negativamente sulla volontà di intraprendere una attività imprenditoriale, scoraggia, come detto, gli investimenti soprattutto esteri, disincentiva l’innovazione, deprime ulteriormente il gettito fiscale, aumenta a dismisura i costi del credito con inevitabile riduzione dei tassi di occupazione.
Non vi può essere dubbio sul fatto che il ritardo delle decisioni giudiziali non assunte entro un lasso di tempo ragionevole ovvero del tutto prive di efficacia laddove rese perché magari nelle more la parte soccombente è fallita, pregiudichi inesorabilmente i diritti individuali dei cittadini che pertanto finiscono per non essere adeguatamente tutelati.
Tutto ciò segna il livello di inciviltà del nostro ordinamento giuridico.
Le ultime rilevazioni rese disponibili dalla Commissione europea per l’efficacia della giustizia (CEPEJ), organismo istituito in seno al Consiglio d’Europa, hanno descritto le tendenze generali dei sistemi giudiziari di 45 paesi europei, inclusa l’Italia.
Cerchiamo allora di riflettere, anche alla luce di questi dati, sui tempi medi di durata delle cause civili nel nostro Paese e sugli accorgimenti che potrebbero, senza bisogno di stravolgere l’impostazione del nostro processo civile, migliorarne indubbiamente l’efficienza.
Un recentissimo studio reso pubblico dall’Università Cattolica ci rivela che, nonostante qualche pur flebile ma non meno apprezzabile miglioramento, la giustizia italiana resta la più lenta d’Europa. La nostra macchina processuale risulta gravata da un arretrato imponente ed è seconda solo alla Bosnia Erzegovina quanto al numero di cause civili pendenti rispetto agli abitanti.
Per la verità, già da qualche anno il nostro sistema sta mostrando un “tasso di smaltimento” dei processi superiore al 100% per cui si può dire che le cause civili concluse in un anno sono superiori a quelle che nello stesso periodo sono state instaurate.
L’arretrato accumulato si sta pian piano riducendo ma in ogni resti ancora oggettivamente, elevatissimo.
Il numero dei procedimenti civili complessivamente pendenti che oggi è pari a circa 3,3 milioni di unità è in costante riduzione a partire dal 2014 (anno in cui erano stimati intorno ai 4,5 milioni), e tale risultato è stato possibile grazie all’enorme sforzo compiuto dalla magistratura ordinaria e – va detto – anche da quella onoraria, che rappresenta un pilastro imprescindibile della giurisdizione seppure, quest’ultima sia ancora in attesa di una disciplina che ne regolamenti dignitosamente la posizione giuridica ed il trattamento economico.
Nello stesso tempo, nonostante il numero sicuramente eccessivo degli avvocati esercenti sul territorio nazionale, stanno progressivamente diminuendo anche le nuove iscrizioni di cause civili, sia in primo sia in secondo grado (fenomeno questo dovuto soprattutto ai costi ingenti legati alle spese vive necessarie per avviare un qualsivoglia procedimento): fa eccezione, rispetto a questo trend, la Corte di Cassazione, che tuttavia sconta l’aumento di ruolo determinato dalla scelta del legislatore (d.l. 13/2017) di accentrare davanti ad essa le impugnazioni in materia di protezione internazionale, il che ha determinato un aumento del relativo contenzioso dai 374 procedimenti del 2016 ai 10.341 nel 2019, come ha messo in luce anche la recente relazione del Primo Presidente sull’amministrazione della giustizia.
Appare quindi lampante che l’entità dell’arretrato non può non influire sulla tempistica di smaltimento delle cause civili vecchie e nuove e del resto se lo stesso personale giudicante deve dedicarsi all’istruzione e alla decisione di una così significativa mole di procedimenti inevasi, magari giacenti anche da parecchi anni sugli scaffali delle cancellerie civili, non può sorprendere il fatto che i tempi di definizione di una causa civile in Italia siano peggiori rispetto a tutti gli altri ordinamenti presi in esame dalla CEPEJ.
I dati della Commissione europea per l’efficacia della giustizia confermano il triste primato del nostro Stato, che rimane il fanalino di coda della classifica europea. Secondo le rilevazioni la durata media di un processo civile sarebbe pari a:
- 527 giorni (meno di un anno e mezzo) per il primo grado;
- 863 giorni (poco più di due anni e quattro mesi) per il secondo grado;
- 1.265 giorni (circa tre anni e mezzo) per il terzo grado,
La durata media complessiva dell’intero giudizio risulta quindi stimato in 2.655 giorni (più o meno sette anni e tre mesi) e pertanto il paragone con altri nazioni europei è da considerarsi del tutto disastroso: a parità di condizioni, solo per citare qualche esempio, i tre gradi del processo civile durano mediamente 1.552 giorni in Grecia, 1.221 giorni in Francia, 1.238 giorni in Spagna, 530 giorni in Romania, 377 giorni in Svezia, 285 giorni in Portogallo.
Si tratta di dati solo in parte meramente teorici, che probabilmente confermano l’opportunità di essere molto cauti quando si fanno ragionamenti basati sulla statistica, anche perché – come diceva Charles Bukowski – “un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media“.
Purtuttavia anche un cittadino neofita che abbia messo piede una sola volta in un ufficio giudiziario, per ragioni personali o professionali, sa bene che un procedimento civile di media complessità, che abbisogni di una seppur minima attività istruttoria orale, dura in primo grado molto più di un anno e mezzo.
Se poi il procedimento coinvolge più di due parti, magari con chiamate di terzi in causa, necessita di interrogare le stesse parti, escutere testimoni, disporre consulenza tecnica d’ufficio, quando non anche rinnovarla: alla luce di tutto ciò deve pertanto considerarsi estremante difficile se non addirittura impossibile che il primo grado di un giudizio civile impieghi meno di tre anni per giungere a decisione, il tutto senza considerare le ipotesi di scioperi, astensioni, sostituzioni del giudice, assenze a vario titolo, omesse comunicazioni, errori di notifica, che rendono eventualmente necessaria la ripetizione, la rinnovazione o anche solo il rinvio di uno o più degli incombenti processuali.
Non è quindi un caso se il legislatore sta reiteratamente tentando – con esiti francamente non proprio positivi – di scoraggiare il ricorso alla magistratura ordinaria, incentivando o imponendo strumenti come la mediazione, la negoziazione assistita, l’arbitrato ed altri metodi alternativi di risoluzione delle controversie
La situazione emergenziale legata COVID-19 ha accelerato dei processi di informatizzazione che si rendevano necessari già da un po’ di anni: difatti chiunque abbia un minimo di esperienza pratica dell’attività giudiziaria sa che un buon numero di udienze civili impone alle parti (e, per esse, ai relativi difensori) una “mera comparizione”: ci si riporta agli atti difensivi, si insiste per l’accoglimento delle proprie istanze, si chiede la concessione di termini, si precisano le conclusioni come in atti, e via dicendo. Adempimenti spesso vacui e ripetitivi, resi per lo più pleonastici dal consolidato favore che la prassi processuale, stabilizzatasi negli anni, riserva allo svolgimento del contraddittorio in forma scritta piuttosto che orale.
Si devono quindi salutare positivamente le innovazioni che la disciplina normativa dell’emergenza sanitaria ha elaborato per scongiurare un lockdown totale delle attività processuali: prima fra tutte l’udienza “cartolare” a trattazione figurata, cioè sostituita dal deposito di brevi note scritte, che a dire il vero potrebbe – anche a regime – sostituire la stragrande maggioranza delle odierne udienze civili, almeno quelle che non implichino attività di assunzione delle prove o all’esito delle quali si debbano adottare provvedimenti non decisori ma solo ordinatori.
C’è solo da augurarsi che la digitalizzazione del processo civile non resti una breve parentesi legata esclusivamente alla crisi pandemica ma possa anzi rappresentare il cuore pulsante di un sistema giudiziario più spedito ma al tempo stesso rispettoso del principio del contraddittorio. Per fare ciò, naturalmente, è necessario colmare le lacune che l’esperienza emergenziale ha evidenziato, a livello sia infrastrutturale sia culturale e pertanto devono essere potenziate le reti informatiche di modo da abilitare il maggior numero possibile negli uffici giudiziari.
Tutti gli operatori del pianeta giustizia e quindi magistrati, avvocati, ed anche funzionari di cancelleria devono quindi essere messi in condizione di accedere da remoto ai fascicoli e ai registri civili.
Le risorse economiche – pare – ci saranno. Vedremo se si saprà farne buon uso.
In questo contesto, si inserisce il d.d.l. di delega per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, presentato al Senato con il n. 1662 in data 09/01/2020 ed attualmente in corso di esame in commissione. Se questo provvedimento verrà approvato entro la legislatura corrente, il Governo avrà l’onere di adottare uno o più decreti legislativi destinati a riformare il primo e il secondo grado del giudizio civile, attraverso la riduzione e semplificazione dei riti, nonché a rivisitare la disciplina degli strumenti di A.D.R.
Va detto che il testo, almeno nella sua configurazione attuale, non è piaciuto molto agli addetti ai lavori i quali hanno sottolineato come la ragionevole durata del processo non si ottiene con la modifica delle norme, quanto piuttosto con riforme di carattere strutturale ed organizzativo, intervenendo soprattutto sul numero e sulla formazione del personale (giudicante e non). Tanto ciò è vero che, a parità di condizioni, taluni uffici giudiziari – i quali adottano ed applicano pratiche virtuose – risultano molto più efficienti di altri, come confermano le rilevanti differenze nella performance degli uffici giudiziari nelle diverse regioni d’Italia, rilevate oggi come in passato.
A tal proposito balza agli occhi un dato di carattere generale, utile alle analisi dei lavori parlamentari: nel 2018, in linea con la media UE, l’Italia ha speso per i suoi tribunali 5,8 miliardi di euro (0,33% del PIL, che non si discosta dalla percentuale degli anni precedenti), composti per due terzi, analogamente a quanto avviene nei paesi europei, da stipendi per giudici, PM e operatori amministrativi che supportano la loro attività; il numero di giudici e amministrativi è di gran lunga inferiore alla media europea; giudici e PM guadagnano di più che all’estero in rapporto al salario medio nazionale.
L’Italia, quindi, impiegando personale in misura molto più ridotta rispetto a molti paesi europei, investe nella giustizia risorse finanziarie in linea con la media europea; in altre parole, la giustizia italiana non è sottofinanziata ma è mal gestita.
Superata la fase critica disciplinata dall’art. 83 del DL Cura Italia e dalla legge di conversione (n. 77/2020) attraverso cui sono state introdotte importanti novità in materia di pct quali l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti introduttivi e del pagamento telematico del contributo unificato ad essi connesso per i procedimenti innanzi ai tribunali e alle corti di appello, nonché la possibilità del deposito e del pagamento telematico per atti e documenti relativi ai giudizi in Cassazione, la “fase 2” che doveva essere gestita dai capi degli uffici giudiziari in ragione della diffusione del contagio da Covid-19 sul territorio, ha invece mostrato il fianco attraverso il caos generatosi per effetto di protocolli, rinvii, disposizioni di presidenti di sezione e di singoli giudici, smartworking, accesso ai palazzi e alle cancellerie, privacy e sicurezza dei dati.
In realtà il pianeta giustizia è stata solo la punta dell’iceberg, perché tutta la pubblica amministrazione, non solo dal punto di vista tecnologico, si è rivelata “fragile”, macchinosa, impreparata.
Piani straordinari, riforme epocali, recovery fund: l’entusiasmo da “ricostruzione” post emergenza sembra alimentare, almeno nelle intenzioni, una precisa volontà di riformare in modo serio la “giustizia civile” onde fornire finalmente quelle risposte che da anni si impongono sul piano della brevità e della prevedibilità.
La speranza è che alle buone intenzioni seguano fatti concreti: definizione dell’“arretrato” (di 340.804 procedimenti) e completa digitalizzazione del processo innanzi ai giudici di pace e alla Corte di Cassazione sono i due obiettivi da perseguire nell’immediato e con le risorse a disposizione.
La sfida è difficile ma non impossibile: buon lavoro Ministro.
BRUNO IANNIELLO

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