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JUVE ROMA, LO STRASCICO SOCIAL E I PROFILI GIURIDICI

  • storiescomode
  • 8 feb 2021
  • Tempo di lettura: 8 min

Qualche tempo l’Amministratore Delegato dell’Inter, Giuseppe Marotta, nel corso di un convegno tenutosi presso il Castello Sforzesco di Milano, esprimeva una preoccupazione estremamente sentita dalla quasi totalità delle società di calcio: “Non possiamo arginare Instagram e Twitter…I social sono strumenti che non possiamo fermare perché fanno parte della sfera privata dei giocatori o dei loro parenti…Non ci sono gli strumenti adatti per porre un freno” . Esiste quindi un problema legato all’utilizzo dei social da parte dei calciatori i quali, molto spesso si servono di essi per lanciare battute più o meno innocenti, accuse a questo o quel Dirigente o compagno di squadra oppure esternano reazioni spesso scomposte o fuori luogo dopo una vittoria o una sconfitta della propria squadra.

Il tema è estremamente scivoloso è non può essere affrontato con un colpo di accetta stante anche il fatto che il nostro ordinamento si pone nell’ambito di un contesto di regole che certamente non può essere assimilato a quello di un paese totalitario o semitotalitario.

Da una parte vi è la necessità di preservare lo spazio di libera espressione del giocatore al pari di ogni lavoratore subordinato e, più in generale, di ogni individuo dall’altra vi è la necessità altrettanto impellente di porre un freno più che legittimo alle condotte o alle espressioni social dei calciatori le quali possano incidere sull’immagine aziendale, sull’andamento e sul clima all’interno della squadra, oltre che, ovviamente, sulle posizioni soggettive di terzi (avversari, arbitri, tifosi, ecc.).

Il cogente e complesso bilanciamento tra la sacrosanta ed inviolabile libertà di espressione del resto sancita dall’art. 21 della nostra Legge fondamentale e la salvaguardia dei diritti dei terzi non rappresenta un problema le cui radici sono piuttosto antiche se non addirittura pregresse rispetto all’avvento dei social network , che, però, nel tradurre le comunicazioni da una confinata piazza “reale” ad un’illimitata dimensione “virtuale” , ne hanno certamente amplificato le potenzialità lesive. Al di là degli aspetti di carattere penale che pure sono risultati alquanto importanti negli ultimi anni la giurisprudenza lavoristica è stata più volte chiamati a pronunciarsi sulla rilevanza – in particolare, a fini disciplinari – delle dichiarazioni o, più in generale, dai comportamenti (sui) social dei prestatori di lavoro, divenuti destinatari di sanzioni di varia gravità da parte dei rispettivi datori di lavoro, privati e pubblici .

Come è stato di recente rilevato in dottrina, i comportamenti degli individui sui social possono venire in rilievo tanto nella fase pre-assuntiva quanto nel corso del rapporto di lavoro ma nel caso che ci occupa ovvero quello del contesto calcistico assumono rilevanza ai fini del rapporto di lavoro i post e le comunicazioni rese dai calciatori professionisti nel corso del rapporto di lavoro, specie al di fuori dell’orario e del contesto lavorativo, essendo poco plausibile anche se non del tutto materialmente improbabile, che il calciatore si intrattenga sui social durante l’orario di lavoro. . Come già rilevato in apertura di queste righe la tematica interessa il diritto di manifestare il pensiero ed i relativi limiti nel prisma degli obblighi che assistono il rapporto di lavoro subordinato . L’obbligo di fedeltà, in particolare, impone quindi in primis al prestatore d’opera di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro ovvero verso la società di appartenenza e di astenersi dal compiere qualunque atto idoneo a ledere quest’ultimo , oltre che dal “porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da nuocere gli interessi morali e materiali o compromettere il rapporto di fiducia intercorrente tra le parti” .

In tal caso la norma di riferimento è quella contenuta nelle clausole generali di correttezza e buona fede (1175 e 1375 c.c.) e l’obbligo di fedeltà si presenta come una frontiera mobile e tutt’altro che insensibile alle specificità del contesto di riferimento .

Traducendo nello spazio “virtuale” le consolidate acquisizioni in punto di condotte c.d. “extra-lavorative” , si può affermare che affinché un comportamento social – a seconda dei casi, un “post”, un “tweet”, un “like”: v. infra – venga in rilievo, non basta che questo mini genericamente la fiducia della società sulla persona del calciatore , né, ovviamente, che costituisca il pretesto per allontanare un giocatore sgradito, per motivi di carattere tecnico/agonistico o, addirittura, per ragioni legate all’identità della persona dell’atleta .

Per assumere una rilevanza disciplinare, infatti, la condotta deve risultare idonea a provocare un’immediata lesione dell’immagine aziendale , ovvero assumere un valore sintomatico circa il non corretto adempimento della prestazione da parte del lavoratore .

Stiamo bene attenti però in quanto il vaglio delle condotte social non può perciò sfociare in un giudizio morale o nel sindacato delle idee, anche bizzarre, dei singoli , le quali fanno infatti parte dell’ineliminabile bagaglio di libertà della persona .

Anche con riguardo alle critiche espresse via social , si dovrà fare riferimento ai limiti della continenza formale e sostanziale, mutuati dalle regole vigenti in materia di (diritto di cronaca giornalistica e) diffamazione a mezzo stampa e giunti ad integrare quello che in dottrina è stato efficacemente definito il “decalogo del buon lavoratore” .

Di conseguenza, laddove la censura venga espressa con modalità espressive denigratorie o contrastanti con le regole del vivere civile (continenza formale) o rechi informazioni non veritiere (continenza sostanziale), il calciatore non potrà eccepire la natura privata della comunicazione , specie laddove il social sia “aperto” come spesso accade, ossia accessibile da parte di chiunque in qualunque momento.

Si dovrà senz’altro tenere conto del contesto in quanto un “like”, ad esempio, può, a seconda delle circostanze, assumere i contorni di un cordiale messaggio di saluto a terzi (colleghi o tifosi), ovviamente irrilevante sul piano disciplinare, ma anche quello di un mezzo – dalla dubbia correttezza – per la conduzione di una trattativa con il datore di lavoro ovvero di condivisione e, perciò di adesione personale ad un giudizio critico, se non offensivo, espresso da altri nei riguardi di un collega, della dirigenza o dell’allenatore .

In linea generale ogni lavoratore subordinato e quindi anche il calciatore in quanto appartenente a tale categoria, deve astenere dal divulgare notizie che rechino un pregiudizio all’impresa e la segretezza circa quanto accaduto o proferito all’interno delle “sacre Mura dello spogliatoio” assume, alla luce della spiccata visibilità di cui lo sport si alimenta, una peculiare rilevanza in ambito calcistico, al punto da potersi ricondurre alla tutela dell’organizzazione aziendale ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2105 c.c. .

Di conseguenza, restando fermo che, ai sensi dell’art. 10, comma 6, del contratto collettivo dei calciatori di Serie A, il calciatore non ha comunque diritto di interferire nelle scelte tecniche e gestionali della società, le eventuali critiche rivolte all’allenatore, alla dirigenza o ai compagni debbano essere al più espresse a porte chiuse e non sui mezzi di comunicazione o, tanto meno, sui social, pena la violazione del dovere di leale collaborazione che assiste il rapporto di lavoro subordinato del calciatore .

Dopo avere esaminato i contorni del possibile sindacato, a fini disciplinari, delle condotte social dei calciatore, ci si chiede se e in quale misura una squadra di calcio possa agire anche in via preventiva, in particolare mediante l’introduzione di una Social Media Policy. Specialmente negli Stati Uniti, ove tale pratica è assai diffusa, anche in ambito sportivo , si discute da tempo circa la validità delle eventuali limitazioni imposte ai comportamenti dei lavoratori sui social network , sotto il profilo dell’eccessiva e, perciò, indebita compressione della libertà di espressione dei singoli , nonché sotto il diverso profilo – qui non direttamente in rilievo – delle restrizioni all’esercizio dei diritti sindacali .

In ambito nazionale, si è di recente osservato in dottrina che la policy non potrebbe che assumere un carattere meramente ricognitivo degli obblighi derivanti dai principi generali e non potrebbe perciò porre limitazioni alla libertà di espressione dell’individuo, giacché, altrimenti, risulterebbe irragionevolmente ampliata la latitudine dell’obbligazione lavorativa e dunque dell’oggetto del contratto . In effetti, qualora invece la policy assumesse dei contorni eccessivamente dilatati, l’intera vita dello sportivo (nella sfera “privata”, oltre che in quella “pubblica” ), mutuando le parole di Federico Mancini, “passerebbe al servizio della controparte”, ma, per l’appunto, ciò risulterebbe precluso, a tacer d’altro, dal già richiamato art. 8 s.l. .

Per tale ragione una possibile social media policy non può precludere in toto l’utilizzo dei social da parte degli atleti, mettendo così il “bavaglio” alle relative manifestazioni di pensiero, sulla scia del celebre “shut up and dribble” rivolto al cestista LeBron James a seguito delle critiche dallo stesso mosse nei riguardi di alcune scelte di politica interna della Presidenza americana . D’altro canto, come altrove si è sostenuto , la creazione di piattaforme per consentire agli atleti di esprimere le proprie opinioni, di comunicare il proprio stato d’animo, se non, addirittura, di ammettere le proprie difficoltà personali , può essere uno strumento importante di promozione del dialogo e dei valori dello sport.

Lo stesso contratto collettivo dei calciatori di Serie A incoraggia le società a “promuovere e sostenere, in armonia con le aspirazioni dei calciatori con cui è legata da un rapporto contrattuale, iniziative e istituzioni per il miglioramento ed incremento della cultura”, evidentemente da intendersi “in senso lato”, ossia in una visione che inglobi il sostegno del valore dell’eguaglianza e la lotta alla discriminazione, nello sport e nella società .

In sostanza, una previsione che sottolineasse e rimarcasse l’importanza per la squadra di un comportamento “virtuale” rispettoso dei valori della società di appartenenza potrebbe svolgere una funzione informativa o di awareness raising , specie laddove la policy si accompagnasse all’organizzazione di appositi corsi volti a favorire un corretto utilizzo dei social (“netiquette”) da parte dei calciatori, sulla scia di quanto già in passato previsto con riguardo ai rapporti di questi ultimi con la stampa.

Maggiori dubbi si porrebbero di fronte ad una policy che, pur non vietando in toto l’uso dei social, ponesse l’autorizzazione della società quale condizione per il caricamento di un contenuto da parte dell’atleta, al pari di quanto avviene, sulla scorta dell’art. 8 del contratto collettivo dei calciatori di Serie A, per lo svolgimento di attività extra-lavorativa.

Con la cautela che si impone quando sono coinvolti i diritti fondamentali della persona che lavora, si potrebbe infatti sostenere che il preventivo vaglio datoriale sulla compatibilità del messaggio con i valori della società si tradurrebbe in un’eccessiva restrizione della libertà di espressione e della dignità del professionista, ponendosi altresì in contrasto con il più volte richiamato art. 8 s.l.

Come avete potuto intuire la questione non è affatto di semplice risoluzione e come sempre il tutto è ancorato al buon senso sia delle società calcistiche sia degli stessi calciatori i quali sono chiamati a fare un uso parsimonioso e corretto dei social in quanto le informazioni che essi divulgano, il più delle volte, non incide solo sulla propria sfera personale ma soprattutto su quello dei club per cui sono tesserati.

Il caso più lampante si è verificato proprio all’indomani del match disputatosi sabato sera tra la Juventus e la Roma allorquando alcuni giocatori giallorossi si sono lasciati andare a dei commenti social che hanno infastidito una parte più o mena estesa della tifoseria giallorossa la quale si è sentita come quel marito becco e contento.

Molti, ma non tutti, hanno ritenuto tali commenti del tutto fuori luogo in quanto sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo atteso che ogni tifoso ha una sua testa pensante) essere passato il messaggio per cui perdere 2-0 contro la vecchia signora può essere considerato sinonimo di vittoria.

Anche in questo caso, a nostro modesto avviso, occorre buon senso e raziocinio: sono certamente da censurare le reazioni social del tutto scomposte di determinati tifosi che hanno costretto Jordan Veretout a disattivare tali commenti ma è altrettanto vero che molti calciatori, e mi riferisco soprattutto a più giovani, devono acquisire nel più breve tempo possibile piena consapevolezza delle proprie condotte evitando, ove possibile, commenti del tutto fuori luogo soprattutto all’indomani di una sconfitta contro una avversaria che storicamente non ha mai suscitato particolari simpatie da parte dei sostenitori giallorossi al pari dei cugini laziali.

Sarebbe quindi uuspicabile che buona parte dei calciatori che fanno parte della attuale rosa giallorossa e che, vuoi per la giovane età o per l’inesperienza, non conoscono ancora l’ambiente giallorosso ed i propri straordinari sostenitori, tenessero un corso accelerato teso a comprendere cosa può indispettire ovvero infastidire i tifosi social ed anche quelli asocial un po’ più avanti con gli anni che però hanno vissuto la storica rivalità con la Juve nei mitici anni ottanta.

BRUNO IANNIELLO



 
 
 

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